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“Fratelli coltelli” d’importazione: uno fuoriclasse, l’altro schiappa


La prova che il “legame di sangue” nel calcio non conta


08/08/2009

di Cristian Vitali

Non sembrerebbe, ma di calciatori fratelli nel professionismo ce ne sono parecchi. Basti pensare ai Baresi. Il primogenito, Giuseppe, a lungo nell’Inter e oggi secondo di Mourinho, il secondo, Franco, vera e propria bandiera del Milan per oltre un ventennio. Ai giorni nostri, invece, troviamo i Tedesco, entrambi playmaker dal sicuro rendimento nonché i gemelli Filippini, furetti di centrocampo le cui carriere per lungo tempo hanno percorso binari pressoché paralleli. Senza contare gli Inzaghi, entrambi bomber allevati nelle Giovanili del Piacenza, gli stopper Cannavaro, i gemelli Zenoni, e i Lucarelli, centravanti il primo, difensore il secondo. E abbiamo citato solo i più conosciuti. Tutti italiani, tutti di qualità. Ma se andiamo a rispolverare nell’archivio dei ricordi i “fratelli d’importazione” che hanno entrambi giocato nel campionato italiano, possiamo riscontrare cosette parecchio interessanti. E cioè che nella stragrande maggioranza dei casi, si fa l’affare solo al 50%. Per il restante 50% rischiamo di prendere un clamoroso “bidone”. In buona sostanza: dei due fratelli, quello valido è solo uno. L’altro è una “bufala”, che forse approfitta del buon nome del fratello più bravo, e sull’onda del suo personalissimo successo vuol far credere di essere altrettanto valido, di avere quindi nel DNA di famiglia il cromosoma del campione. Ma i fatti sono ben diversi: quasi tutti mentono ben sapendo di mentire. Come il caso del più grande: Maradona. Diego, “El Pibe de Oro” – che non necessita di presentazioni – all’apice della propria carriera, quando incantava nel Napoli, si ricordò di avere un fratello molto più giovane, Hugo, e pretese che la dirigenza prestasse il denaro necessario ad ingaggiarlo a qualche club minore della Serie A. Fiutando puzza di bruciato, Pisa e Pescara rifiutarono (l’allettante?) offerta, mentre l’Ascoli cadde nel tranello. Ma Hugo detto “Turco” era solo l’ombra del più grande, un’ombra molto piccola e oscura. “Jouri Jouri Djoarkaeff!” era il grido dei tifosi dell’Inter che inneggiavano il campione francese, autore, tra l’altro, di uno dei gol più belli nella storia del nostro campionato, protagonista di un gesto atletico particolare contro la Roma. Nessuno sa (forse neanche i tifosi locali) che il fratellino Micha nel 1997 è stato bocciato senza appello da Fidelis Andria prima (in B) e dal Fiorenzuola poi (in C1). E’ passato agli annali come “Meteora” eccellente, visto che non ha mai giocato neppure un minuto. E i fratelli ghanesi Pelè? Ovviamente non parliamo del “mito” del calcio, al secolo Edison Arantes Do Nascimento, stella del Santos, bensì del quasi omonimo Abedì Pelè, che tutto sommato giocò abbastanza bene in due stagioni al Torino, anche se in chiaroscuro: la prima, molto positiva, condita con 10 reti. La seconda, pessima per i granata, ma anche a livello personale. Il fratello minore, quel Kwame Ayew dal nome impronunciabile, fu solo una nota di colore nel Lecce. Passiamo ai Cribari: “Binho”, com’era soprannominato Fabio, giunse all’Empoli nel 1997. Fu molto sfortunato, certo, ma alla fine si ritrovò a giocare nel Castelnuovo in C2, per poi scomparire dal calcio professionistico. A suo tempo, sponsorizzò il fratellino Emilson Sanchez alla dirigenza biancazzurra, forse non sapendo che fosse più bravo di lui, come ha dimostrato in seguito anche con le maglie dell’Udinese a della Lazio. Oppure Kakà, autore di prodezze da vero campione e grande trascinatore in rossonero, fece da sponsor al proprio fratello Digao, timido ed anonimo difensore che il Milan preferì prestare al Rimini, in Serie B. Zarate: per molti è l’attuale attaccante della Lazio, che iniziò alla grande il campionato nel 2008 segnando un buon numero di reti e sfoderando giocate degne di nota. Non tutti sanno però che il suo procuratore, il fratello Sergio, ha giocato in Italia nel 1992, con la matricola Ancona (che subito retrocesse). Non fu certo il salvatore della Patria: lo mandarono via già nel mercato di Gennaio. A proposito di Ancona, un altro caso emblematico è rappresentato dagli Jorgensen: Martin è conosciutissimo, sono oltre 10 anni che gioca in Italia, prima con l’Udinese e poi con la Fiorentina ed è sempre stato un esterno dal sicuro rendimento e con il vizio del gol. Pochi sanno che il fratello più giovane (non) ha giocato con i dorici allorquando nel 2003 tornarono nella massima Serie. Mads figurava nell’organico dei marchigiani, ma non vide mai il campo. Chissà perché? Gli spagnoli Helguera ve li ricordate? Da noi non hanno lasciato un ricordo certo indelebile. Il maggiore, Ivan ebbe da giovane una fugace apparizione nella Roma. Tornato in Spagna, però, è diventato nel tempo uno dei “galacticos”, stella del Real Madrid e delle “furie rosse” per oltre un decennio. Luis, anch’egli centrocampista, è il fratello minore, in tutti i sensi. Contrariamente a Ivan, ha avuto un’esperienza italiana molto più lunga, ma sempre caratterizzata da apparizioni fugaci o senza particolari sussulti: ha militato a corrente alternata dal 2000 al 2008 in Italia tra A e B (a parte una breve parentesi in Patria all’Alavès), con le maglie di Udinese, Fiorentina, Ancona e Vicenza. In tutti questi anni è riuscito a segnare un solo gol, nonostante abbia giocato con continuità. Capitolo Dalmat. Stephane, il maggiore, a dispetto del suo potenziale, non è riuscito a sfondare in nessuna delle squadre in cui ha transitato, il che lo ha portato a frequenti trasferimenti. Ciononostante, ha militato nell’Inter per due stagioni, giocando discretamente. Wilfried, il fratellino, è stata l’ennesima “stella cadente” del Lecce. Citazioni anche per Ze Elias (ex Inter, Bologna e Genoa) e Robinho (portiere, anch’egli al Genoa), per i finlandesi Eremenko (Alexej, una stagione e mezza al Lecce e Roman, “meteora” di Udinese e Siena), nonché per Joelson e Pià, brasiliani, entrambi portati in Italia giovanissimi dall’Atalanta, che girovagano da anni tra Serie A e Serie B, con alterne fortune. La lista è assai lunga e potrebbe proseguire ancora, ma non è il caso. Quello che conta, è fornire una esaustiva visione della realtà. E nella stragrande maggioranza dei casi emerge il classico “spirito di fratellanza”; mai detto fu più azzeccato. Non può che essere encomiabile l’impegno del calciatore che, una volta sistematosi presso una grande squadra, cerca di trovare un ingaggio anche al fratello minore o meno conosciuto, ben sapendo di non far concludere un buon affare al proprio club. Ma del resto, cosa non si farebbe per un fratello, magari scarso, ma pur sempre sangue del proprio sangue.


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